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Sentenza 9 giugno 2015, n. 108

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 25, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione), in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 108 e 111 della Costituzione, e dell'art. 241, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), come sostituito dall'art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 97, 102 e 111 Cost., sollevata dal Collegio arbitrale di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe.

 

 

Corte costituzionale
Sentenza 9 giugno 2015, n. 108

Presidente: Criscuolo - Redattore: de Pretis

[...] nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 25, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione), e dell'art. 241, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), come sostituito dall'art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012, promosso dal Collegio arbitrale di Roma nel procedimento vertente tra la Seriana 2000 società cooperativa sociale Onlus e l'AUSL Roma E, con ordinanza del 16 giugno 2014, iscritta al n. 186 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 2014.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 13 maggio 2015 il Giudice relatore Daria de Pretis.

RITENUTO IN FATTO

1.- Con ordinanza del 16 giugno 2014, il Collegio arbitrale costituito in Roma per la risoluzione della controversia tra la Seriana 2000 società cooperativa sociale Onlus (d'ora in avanti, «Seriana 2000») e l'AUSL Roma E, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 25, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione), in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 108 e 111 della Costituzione, nonché dell'art. 241, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), come sostituito dall'art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 97, 102 e 111 Cost.

La questione è sorta nel corso di un giudizio arbitrale relativo a due contratti d'appalto del 27 marzo 2007, con i quali l'AUSL Roma E ha affidato a Seriana 2000 l'espletamento dei servizi di assistenza ai disabili adulti, a integrazione del personale dipendente, necessari alla realizzazione di centri sperimentali di riabilitazione integrata a carattere semiresidenziale, a favore di utenti disabili e affetti da disabilità stabilizzata a patologia complessa per soggetti residenti nel territorio della AUSL Roma E.

Il giudizio arbitrale è stato promosso da Seriana 2000, che si è avvalsa della clausola compromissoria prevista dall'art. 37 del capitolato d'oneri per il lotto 1, a tenore del quale "La risoluzione di eventuali controversie che dovessero insorgere nell'applicazione della convenzione sarà demandata ad un collegio arbitrale composto da un rappresentante per ciascuna delle parti e da un rappresentante scelto di comune accordo".

Con la domanda d'arbitrato del 13 maggio 2013, Seriana 2000 ha chiesto la condanna dell'AUSL Roma E al pagamento dell'importo di 1.105.634,95 euro, oltre a interessi, a titolo di "adeguamenti ISTAT" e di "rinnovi" del contratto collettivo nazionale di lavoro per le cooperative sociali.

Il Collegio arbitrale, dopo la sua costituzione, ha richiesto alla AUSL Roma E, ritenendolo "necessario", una motivata conferma dell'autorizzazione all'arbitrato, e il 18 marzo 2014 la stessa comunicava con una nota "di non ritenere di aderire all'arbitrato nell'ottica del contenimento dei costi derivante da tale tipologia di contenzioso".

Con successiva memoria, presentata nel termine concesso dal Collegio, Seriana 2000 ha eccepito l'illegittimità costituzionale dell'art. 241, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, come sostituito dall'art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012.

1.1.- Il rimettente osserva che l'arbitrato in oggetto non rientra nella sfera di efficacia della norma transitoria di cui all'art. 1, comma 25, della legge n. 190 del 2012, ricadendo invece nella disciplina del novellato art. 241, comma 1, giacché è stato «conferito» dopo l'entrata in vigore della legge n. 190 del 2012, malgrado la clausola arbitrale sia stata pattuita anteriormente, atteso che gli arbitri sono stati nominati nel 2013 e che non è intervenuta alcuna autorizzazione da parte della AUSL Roma E, né un'autorizzazione poteva ragionevolmente intervenire in precedenza, trattandosi di un requisito introdotto dalla stessa legge n. 190 del 2012.

Ad avviso del rimettente, le norme appena richiamate determinano retroattivamente l'inefficacia della clausola d'arbitrato anteriore all'entrata in vigore della legge e riservano alla parte pubblica il potere di decidere in ordine all'azionabilità della clausola arbitrale. Ciò solleverebbe dubbi di legittimità costituzionale, dando origine a una questione la cui rilevanza deriva dalla sua pregiudizialità rispetto alla definizione nel merito della lite, riguardando l'ammissibilità dell'arbitrato, a causa del diniego frapposto dalla AUSL Roma E.

In particolare, il rimettente dubita della legittimità dell'art. 1, comma 25, della legge n. 190 del 2012, per contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 41, 108 e 111, Cost., in quanto, consentendo di porre nel nulla una clausola compromissoria con effetti retroattivi, la norma disattende il principio della certezza e della stabilità del diritto e dell'ordinamento giuridico, che impone di non introdurre disposizioni che operano retroattivamente su clausole contrattuali esistenti e su rapporti giuridici ancora in essere, ledendo principi e diritti di rango costituzionale, quali la libertà di iniziativa economica e l'autonomia negoziale e di impresa, ai sensi dell'art. 41 Cost.

Nel caso di specie neppure sussisterebbero ragioni che, nel bilanciamento con altri interessi di rango costituzionale, giustificano la decisione del legislatore di privare retroattivamente di efficacia le clausole compromissorie. Le finalità di prevenzione della corruzione, alle quali è ispirata la legge in cui è inserita la norma, non sembrano difatti idonee a giustificare il meccanismo autorizzatorio introdotto dal legislatore in via retroattiva, a meno di non volere attribuire, scorrettamente, un disvalore sociale a un istituto, quale l'arbitrato, tutelato a livello comunitario e costituzionale, ai sensi degli artt. 24, 41, 108 e 111 Cost.

Ad avviso del rimettente, le richiamate finalità attengono esclusivamente alla parte pubblica, l'interesse della quale non può incidere, in via retroattiva e con il riconoscimento a suo favore del diritto potestativo di negare il ricorso all'arbitrato, sui princìpi di parità delle armi e di autonomia negoziale, ai sensi degli artt. 111 e 41 Cost.

Inoltre, la norma non sarebbe solo lesiva dell'affidamento nella stabilità dell'ordinamento giuridico di coloro che hanno stipulato le clausole compromissorie prima dell'entrata in vigore della legge n. 190 del 2012, senza poter prevedere che ne sarebbero scaturite conseguenze negative in ordine alle condizioni di accesso al giudizio arbitrale, ma distoglie le parti dal giudice naturale contrattualmente individuato, in violazione degli artt. 24, 25 e 111 Cost.

1.2.- L'art. 241, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, come sostituito dall'art. 1, comma 19, delle legge n. 190 del 2012, contrasterebbe a sua volta, in primo luogo, con gli artt. 3 e 111 Cost., perché attribuisce alla pubblica amministrazione il potere di autorizzare il ricorso all'arbitrato, che si risolve in un vero e proprio diritto potestativo all'instaurazione del giudizio arbitrale, tale da pregiudicare la parità delle parti nel processo e da determinare uno sbilanciamento in favore della parte pubblica, tenuto altresì conto della natura giurisdizionale dell'arbitrato, che è assistito dalle stesse garanzie di tutela del contradditorio e di imparzialità del giudice proprie della giurisdizione ordinaria.

Il giudice a quo reputa che sussista, in secondo luogo, la violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., per disparità di trattamento normativo fra gli arbitrati in materia di contratti pubblici e quelli disciplinati dal codice di rito civile, in mancanza di valide ragioni che giustificano la diversità di accesso alla giurisdizione, solo per i primi subordinato all'autorizzazione motivata della pubblica amministrazione, a pena di nullità del lodo, mentre nei secondi il rifiuto di una delle parti di aderire all'arbitrato, o il suo mero silenzio, consentono all'altra di ricorrere al tribunale per la nomina dell'arbitro non designato, non senza considerare che la nullità del lodo, negli arbitrati in esame, potrebbe derivare anche da un vizio del provvedimento di autorizzazione (ad esempio, per incompetenza dell'organo che lo ha emesso), con ulteriore violazione degli artt. 3 e 111 Cost.

Infine, la norma si porrebbe in contrasto con l'art. 97 Cost., là dove attribuisce il potere di autorizzare ogni singolo arbitrato all'organo di governo dell'amministrazione anziché alla dirigenza, pur trattandosi di un atto di gestione connotato da discrezionalità tecnica e non di un atto di indirizzo politico-amministrativo, da riservare all'organo di governo, con conseguente vulnus al principio di buon andamento e di imparzialità dell'azione amministrativa, che impone una chiara e netta separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie.

2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, che ha concluso per la declaratoria di infondatezza della questione.

A sostegno della richiesta, la difesa dello Stato richiama la giurisprudenza costituzionale che ha escluso la violazione degli stessi parametri evocati dal rimettente con riferimento all'art. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180 (Misure urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico ed a favore delle zone colpite da disastri franosi nella regione Campania), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 3 agosto 1998, n. 267, che vietano il ricorso all'arbitrato per le controversie in materia di opere pubbliche eseguite in attuazione dell'indicato decreto, fatti salvi i giudizi arbitrali pendenti alla data della sua entrata in vigore.

In particolare, la Corte avrebbe escluso, in quei casi, la violazione dell'art. 3 Cost. sia sotto il profilo della ragionevolezza "intrinseca", rientrando nella discrezionalità del legislatore la scelta di sottrarre le controversie in determinate materie alla definizione arbitrale, sia sotto il profilo del principio di uguaglianza, essendo giustificata la diversità di trattamento di situazioni diverse, come sono quelle che, derivando dalla notifica della domanda d'arbitrato prima o dopo l'entrata in vigore della legge, vengono selezionate sulla base del fluire del tempo. Ha, inoltre, rilevato che il divieto di ricorrere all'arbitrato nelle controversie che non sono incardinate al momento di entrata in vigore della legge non configura una norma retroattiva, bensì una norma rispettosa della regola di cui all'art. 5 cod. proc. civ., ai sensi del quale la giurisdizione e la competenza si determinano con riferimento alla legge vigente al momento della proposizione della domanda (sentenza n. 376 del 2001).

L'intervenuto richiama altresì l'orientamento della Corte di cassazione, che, sempre a proposito del divieto di ricorso all'arbitrato ai sensi del decreto-legge n. 180 del 1998, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale anche in riferimento ai parametri di cui agli artt. 24, 25, 41, 102 e 111 Cost., e contesta che siano pertinenti i riferimenti all'art. 97 Cost., giacché le disposizioni impugnate non riguardano l'organizzazione dei pubblici uffici ma l'ambito della giurisdizione, e all'art. 108 Cost., sulla violazione del quale il rimettente non spenderebbe alcuna motivazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- Il Collegio arbitrale costituito in Roma per la risoluzione della controversia tra la Seriana 2000 società cooperativa sociale Onlus e l'AUSL Roma E dubita della legittimità dell'art. 1, comma 25, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione), per contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 41, 108 e 111 della Costituzione, nella parte in cui non esclude dall'applicazione delle disposizioni di cui all'art. 1, comma 19, della stessa legge, che ha sostituito l'art. 241, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), anche gli arbitrati che, come quello di cui si tratta, sono stati «conferiti» dopo l'entrata in vigore della legge n. 190 del 2012, sulla base di clausole compromissorie pattuite anteriormente.

In particolare, la norma consentirebbe irragionevolmente l'applicazione retroattiva delle disposizioni del richiamato comma 19, a tenore del quale «Le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall'esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, comprese quelle conseguenti al mancato raggiungimento dell'accordo bonario previsto dall'articolo 240, possono essere deferite ad arbitri, previa autorizzazione motivata da parte dell'organo di governo dell'amministrazione. L'inclusione della clausola compromissoria, senza preventiva autorizzazione, nel bando o nell'avviso con cui è indetta la gara ovvero, per le procedure senza bando, nell'invito, o il ricorso all'arbitrato, senza preventiva autorizzazione, sono nulli».

L'inefficacia sopravvenuta, che ne conseguirebbe, delle clausole compromissorie pattuite prima dell'entrata in vigore della legge n. 190 del 2012, e non autorizzate dalla pubblica amministrazione, si porrebbe in contrasto con il principio di certezza e di stabilità dell'ordinamento giuridico e con la libertà di iniziativa economica.

Ad avviso del rimettente, la norma viola, sotto altro profilo, gli artt. 41 e 111 Cost., in quanto, riconoscendo retroattivamente a favore della parte pubblica il diritto potestativo di negare il ricorso all'arbitrato, contrasterebbe con i princìpi di parità delle armi e di autonomia negoziale, nonché con gli artt. 24, 25 e 111 Cost., in quanto distoglierebbe le parti dal giudice naturale da esse contrattualmente individuato.

1.1.- Il rimettente dubita inoltre della legittimità dello stesso art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012, che ha sostituito l'art. 241, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, per contrasto, in primo luogo, con gli artt. 3 e 111 Cost., perché attribuirebbe alla pubblica amministrazione un potere di autorizzare il ricorso all'arbitrato, che si risolve in un vero e proprio diritto potestativo all'instaurazione del giudizio arbitrale, tale da pregiudicare la parità delle parti nel processo e da determinare uno sbilanciamento in favore della parte pubblica.

La norma contrasterebbe ulteriormente con gli artt. 3, 24, 25, 102 e 111 Cost., per disparità di trattamento fra gli arbitrati in materia di contratti pubblici, il ricorso ai quali è subordinato alla preventiva autorizzazione motivata della pubblica amministrazione, a pena di nullità del lodo, e gli arbitrati disciplinati dal codice di rito civile, in mancanza di valide ragioni che giustifichino la diversità di accesso alla giurisdizione. La discriminazione riguarderebbe anche il fatto che solo per i primi la nullità del lodo potrebbe derivare anche da un vizio del provvedimento di autorizzazione (ad esempio, per incompetenza dell'organo che lo ha emesso).

Infine, sarebbe violato anche l'art. 97 Cost., in quanto la norma attribuisce il potere di autorizzare ogni singolo arbitrato all'organo di governo dell'amministrazione anziché alla dirigenza, pur trattandosi di un atto di gestione connotato da discrezionalità tecnica e non di un atto di indirizzo politico-amministrativo, da riservare all'organo di governo, con la conseguenza di un vulnus al principio di buon andamento e di imparzialità dell'azione amministrativa, che impone una chiara e netta separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie.

2.- Quanto alla censura dell'art. 1, comma 25, della legge n. 190 del 2012, che ha natura di norma transitoria, si osserva che il rimettente muove dal presupposto implicito, ma evidente, che con l'espressione «Le disposizioni di cui ai commi da 19 a 24 non si applicano agli arbitrati conferiti o autorizzati prima della data di entrata in vigore della presente legge», il legislatore abbia inteso stabilire, riferendosi al comma 19, che esso non si applica a quelle clausole compromissorie per le quali l'incarico arbitrale è stato conferito o autorizzato prima della data di entrata in vigore della legge. Da ciò trae la conseguenza che le clausole compromissorie pattuite, senza autorizzazione, prima dell'entrata in vigore della legge sarebbero retroattivamente colpite da inefficacia, in mancanza di anteriore conferimento dell'incarico agli arbitri o di anteriore autorizzazione dell'arbitrato, rimanendo al di fuori della sfera di applicazione della norma transitoria di cui al comma 25, che si espone così ai sollevati dubbi di legittimità.

La questione non è fondata.

L'art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012, là dove prevede la preventiva autorizzazione motivata da parte dell'organo di governo dell'amministrazione, a pena di nullità della clausola compromissoria, è una norma imperativa che condiziona l'autonomia contrattuale delle parti. Essa si applica, ai sensi del comma 25 dello stesso art. 1, anche alle clausole compromissorie inserite nei contratti pubblici anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 190 del 2012, fatti salvi gli arbitrati nei quali gli incarichi arbitrali siano stati conferiti o per i quali sia intervenuta l'autorizzazione prima di tale data.

Un simile effetto si sottrae alle censure sollevate dal rimettente.

Lo ius superveniens consistente nel divieto di deferire le controversie ad arbitri senza una preventiva e motivata autorizzazione non ha l'effetto di rendere nulle in via retroattiva le clausole compromissorie originariamente inserite nei contratti, bensì quello di sancirne l'inefficacia per il futuro, in applicazione del principio, espresso dalla costante giurisprudenza di legittimità, secondo il quale la nullità di un contratto o di una sua singola clausola, prevista da una norma limitativa dell'autonomia contrattuale che sopravvenga nel corso di esecuzione di un rapporto, incide sul rapporto medesimo, non consentendo la produzione di ulteriori effetti, sicché il contratto o la sua singola clausola si devono ritenere non più operanti. Non si pone conseguentemente alcun problema di retroattività della norma censurata o di ragionevolezza della supposta deroga all'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale.

Quanto esposto priva di fondamento le ragioni addotte dal rimettente a sostegno della questione relativa al comma 25 dell'art. 1 della legge n. 190 del 2012, giacché contraddice il presupposto, comune a tutte le censure, secondo il quale la norma attribuirebbe efficacia retroattiva al divieto di arbitrato senza preventiva autorizzazione.

3.- L'infondatezza della questione con riferimento alla norma transitoria impone l'esame delle censure mosse all'art. 241, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, come sostituito dall'art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012.

Nemmeno tale questione è fondata.

Secondo il rimettente, la norma contrasterebbe in primo luogo con gli artt. 3 e 111 Cost., perché attribuisce alla pubblica amministrazione il potere di autorizzare il ricorso all'arbitrato. Tale potere si risolverebbe in un vero e proprio diritto potestativo all'instaurazione del giudizio arbitrale, tale da pregiudicare la parità delle parti nel processo e da determinare uno sbilanciamento in favore della parte pubblica, non tollerabile tenuto altresì conto della natura giurisdizionale dell'arbitrato, che è assistito dalle stesse garanzie di tutela del contradditorio e di imparzialità del giudice proprie della giurisdizione comune.

Nello scrutinare la legittimità costituzionale del divieto di arbitrato nelle controversie relative all'esecuzione di opere pubbliche rientranti nei programmi di ricostruzione dei territori colpiti da calamità naturali, ai sensi dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180 (Misure urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico ed a favore delle zone colpite da disastri franosi nella regione Campania) convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 3 agosto 1998, n. 267, questa Corte ha avuto modo di precisare che «la discrezionalità di cui il legislatore sicuramente gode nell'individuazione delle materie sottratte alla possibilità di compromesso incontra il solo limite della manifesta irragionevolezza. Siffatto limite non può certo dirsi superato nella specie, considerato il rilevante interesse pubblico di cui risulta permeata la materia relativa alle opere di ricostruzione dei territori colpiti da calamità naturali, anche in ragione dell'elevato valore delle relative controversie e della conseguente entità dei costi che il ricorso ad arbitrato comporterebbe per le pubbliche amministrazioni interessate» (sentenza n. 376 del 2001).

A maggior ragione, la scelta discrezionale del legislatore di subordinare a una preventiva e motivata autorizzazione amministrativa il deferimento ad arbitri delle controversie derivanti dall'esecuzione dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi, forniture, concorsi di progettazione e di idee, non è manifestamente irragionevole, configurandosi come un mero limite all'autonomia contrattuale, la cui garanzia costituzionale non è incompatibile con la prefissione di limiti a tutela di interessi generali (ordinanza n. 11 del 2003).

Le medesime esigenze di contenimento dei costi delle controversie e di tutela degli interessi pubblici coinvolti valgono anche in questa materia, nella quale a tali esigenze si accompagna la generale finalità di prevenire l'illegalità della pubblica amministrazione. Ad essa è dichiaratamente ispirata la censurata previsione della legge n. 190 del 2012, che non esprime un irragionevole sfavore per il ricorso all'arbitrato, come sostiene il rimettente, ma si limita a subordinare il deferimento delle controversie ad arbitri a una preventiva autorizzazione amministrativa che assicuri la ponderata valutazione degli interessi coinvolti e delle circostanze del caso concreto.

Neppure sussiste la denunciata violazione del principio della parità delle parti nel processo, con riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., in quanto la prevista autorizzazione non crea alcun privilegio processuale della pubblica amministrazione, idoneo a ledere il principio evocato. Il requisito introdotto dal legislatore, a pena di nullità della clausola compromissoria, si inserisce in una fase che precede l'instaurazione del giudizio - e la stessa scelta del contraente - e non determina pertanto alcuno squilibrio di facoltà processuali a favore della parte pubblica. Al contrario, lo stesso art. 241 prevede, nel successivo comma 1-bis, un adeguato meccanismo di tutela della libertà contrattuale della parte privata qualora l'autorizzazione sia concessa, stabilendo che l'aggiudicatario «può ricusare la clausola compromissoria, che in tale caso non è inserita nel contratto, comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell'aggiudicazione».

La norma contrasterebbe, altresì, con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. per disparità di trattamento normativo fra arbitrati in materia di contratti pubblici e arbitrati disciplinati dal codice di rito civile, in mancanza di valide ragioni che giustifichino la diversità di accesso alla giurisdizione arbitrale, solo per i primi subordinato all'autorizzazione motivata della pubblica amministrazione, a pena di nullità del lodo, mentre nei secondi il rifiuto di una delle parti di aderire all'arbitrato, o il suo mero silenzio, consentono all'altra di ricorrere al tribunale per la nomina dell'arbitro non designato. Negli arbitrati pubblici, inoltre, la nullità del lodo potrebbe derivare anche da un vizio del provvedimento di autorizzazione (ad esempio, per incompetenza dell'organo che lo ha emesso), con ulteriore violazione degli artt. 3 e 111 Cost.

Le stesse considerazioni svolte sopra a proposito della discrezionalità di cui il legislatore sicuramente gode nell'individuare i limiti del ricorso all'arbitrato nella materia dei contratti pubblici consentono di escludere che il diverso trattamento normativo, censurato dal rimettente avendo riguardo agli arbitrati di diritto comune, presenti caratteri di manifesta irragionevolezza.

Va rilevato, inoltre, come il rimettente ponga sullo stesso piano, per sottolineare l'ingiustificata disparità di trattamento, il diniego di autorizzazione preventiva della clausola compromissoria e il rifiuto di una delle parti a nominare l'arbitro di sua competenza (o la sua inerzia nel nominarlo), mentre è evidente che si tratta di situazioni del tutto diverse, inerendo l'una a una fase anteriore all'insorgenza stessa della controversia e l'altra alla fase, immediatamente successiva all'instaurazione del giudizio, di costituzione del collegio arbitrale, nella quale il rifiuto della pubblica amministrazione a nominare l'arbitro o la sua inerzia sono soggetti alla stessa disciplina del codice di rito applicabile alla parte privata.

Nessuna violazione dei parametri di cui agli artt. 3 e 111 Cost. deriva poi dalla possibilità che il lodo sia affetto da nullità per un vizio del provvedimento di autorizzazione, in quanto tale eventuale conseguenza non sarebbe attribuibile al contenuto precettivo della norma censurata, bensì alla sua non corretta applicazione.

Le censure riferite agli artt. 24, 25 e 102 Cost. sono prive di specifica motivazione.

La norma, infine, si porrebbe in contrasto con l'art. 97 Cost., in quanto attribuisce il potere di autorizzare ogni singolo arbitrato all'organo di governo dell'amministrazione anziché alla dirigenza, pur trattandosi di un atto di gestione, connotato da discrezionalità tecnica, e non di un atto di indirizzo politico-amministrativo, da riservare all'organo di governo, con conseguente vulnus al principio di buon andamento e di imparzialità dell'azione amministrativa, che implica la necessità della chiara e netta separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie.

Nemmeno questa censura è fondata.

La separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa costituisce, secondo il costante orientamento di questa Corte, «un principio di carattere generale, che trova il suo fondamento nell'art. 97 Cost. L'individuazione dell'esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell'organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa, però, spetta al legislatore. A sua volta, tale potere incontra un limite nello stesso art. 97 Cost.: nell'identificare gli atti di indirizzo politico amministrativo e quelli a carattere gestionale, il legislatore non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e amministrazione, ledano l'imparzialità della pubblica amministrazione» (ex plurimis, sentenza n. 81 del 2013).

La scelta operata dal legislatore, di affidare all'organo di governo il compito di autorizzare motivatamente il ricorso all'arbitrato nei contratti pubblici, non è irragionevole. L'ampia discrezionalità di cui gode l'amministrazione nel concedere o negare l'autorizzazione, non solo non è riducibile alla categoria dei semplici apprezzamenti tecnici, involgendo essa valutazioni di carattere politico-amministrativo sulla natura e sul diverso rilievo degli interessi caso per caso potenzialmente coinvolti nelle controversie derivanti dall'esecuzione di tali contratti, ma, per il suo stesso oggetto, si esprime in giudizi particolarmente delicati, in quanto connessi all'esigenza perseguita dalla disposizione censurata di prevenire e reprimere corruzione e illegalità nella pubblica amministrazione, e dunque non inopportunamente affidati all'organo di governo.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 25, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione), in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 108 e 111 della Costituzione, e dell'art. 241, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), come sostituito dall'art. 1, comma 19, della legge n. 190 del 2012, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 97, 102 e 111 Cost., sollevata dal Collegio arbitrale di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe.